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ARTISTI

SONO SOLO ARTISTI
"Artisti" è una interessante raccolta di brani profondamente
diversi, nell'ispirazione e nello stile. Eppure
un filo conduttore sembra unire segretamente le canzoni che compongono
quest'opera di Milva. E, stranamente, il "Leitmotiv" non
riguarda il contenuto o una tematica specifica, determinata. Questo,
infatti, accade spesso nelle opere unitarie che Milva, da sempre,
ama realizzare e nelle quali la sua duttilità interpretativa,
attraversando con eleganza la rappresentazione del "particolare",
le offre una possibilità di espansione e di approfondimento,
grazie alla scrittura e all'invenzione compositiva dei grandi
autori, di volta in volta scoperti e proposti, da Brecht a Théodorakis,
per arrivare, di recente, a Michele Serra e Marco Tutino (autori dell'originalissimo
Peter Uncino). In questo album, al contrario, l'artista
tenta di riflettere sulla propria identità, sulla complessità
delle proprie scelte, illuminando le opacità irrisolte di un
cammino difficile, attraverso una rinnovata consapevolezza di sé.
L'asse attorno al quale ruota l'album, insomma, non è un autore o
un repertorio, ma un'idea, una suggestione, un'intonazione. L'opera
recupera quel sostrato popolare autentico che Milva non ha mai dimenticato,
ma, allo stesso tempo, conferma e sottolinea le caratteristiche peculiari
della produzione artistica di Milva, dall'incontro con Strehler, negli
anni Sessanta, fino ad oggi. La sua appassionata volontà di
conoscenza riaffiora di nuovo, e la sua attenzione ad ogni possibilità
di "invenzione semantica" ne esce rafforzata.
Milva canta la consapevolezza simbolica dell'artista e la comprende,
raccogliendone l'essenza. I frammenti del caleidoscopio esistenziale
vengono ricomposti, sul filo della canzone d'autore e della "musica
colta" internazionale: una zona di frontiera, quest'ultima, che
resta decisiva, per capire lo sviluppo estetico di Milva e la sua
evoluzione verso nuovi sentieri di esplorazione poetica.
Dall'ascolto del disco emerge, innanzitutto, un atto di comprensione
e, quindi, d'amore. Nel volto degli artisti, ci suggerisce
Milva, possiamo leggere l'andamento chiaroscurale degli eventi, l'estasi
di un istante in cui lo sguardo dell'Altro ci colpisce e ci mette
in discussione, in un eterno gioco che esprime la verità della
vita, la bellezza dell'Essere, la danza infinita e polifonica dell'universo.
Con i loro "cavalli bianchi", gli artisti
superano i confini e le stagioni, superano il tempo, le sue costrizioni,
i suoi condizionamenti, vagando nell'ignoto.E' quello che accade nella
grande canzone d'autore interpretata da Milva, come nei brani di immediata
risonanza "popolare", dove la capacità di comunicare
e di condividere le emozioni si unisce ad una ricerca della linea
melodica che non è mai banale e che si mantiene sempre ad alti livelli
qualitativi. Questa coerenza estetico-espressiva,
è un elemento caratterizzante nel repertorio multiforme di
Milva. Basta ascoltare il dolcissimo brano di John Denver, se ci fosse
bisogno di una conferma. "Liebe ist" è un brano semplice,
delicato e sobrio, caratterizzato da una melodia larga, di ampio respiro,
con un arrangiamento essenziale, limpido e classicheggiante. Le evoluzioni
vocali di Milva creano un suggestivo contrappunto con lo sfondo musicale,
immergendosi in una massa sonora omogenea, dominata dagli archi. "Sono
solo artisti"·ma artisti veri, carichi di storia e di cultura.Il
senso di radicamento alla terra, la coscienza delle origini li rende
incomprensibili, ambigui, consumandoli in una narrazione che cresce
su se stessa e che si ripete, senza spiegarci o dimostrare nulla,
in qualche applauso andato alla malora, come Milva ci ricorda.
La follia dell'artista si unisce alla ricerca del significato,
in quella "parola" che diventa la zona oscura, il margine
interno sottratto alla parola e, dunque, riconsegnato alle proliferazioni
imprevedibilmente cangianti della Scrittura. La capacità
di "toccare il cielo e di toccare il fondo" riassume
bene l'identità dell'artista, che sfida il Destino, in bilico
tra Terra e Cielo, nelle fantasmagoriche visioni della mente e nelle
tensioni dionisiache dell'anima. Gli Artisti cantati
da Milva non hanno verità, perché della Verità
sono i custodi e i pastori. Artisti che restano bambini, ma, come
diceva Henri Gougaud in una poesia scritta per Juliette Gréco, "bambini
importanti", di cui è bene non fidarsi ma che non possiamo
fare a meno di amare: sono loro, infatti, lo specchio del nostro essere
più profondo. Milva, quindi, sembra farsi portavoce di
una scelta esistenziale che contiene già, in sé, una fortissima
istanza etica, un senso del dovere, un rigore dell'azione e del gesto,
vorrei dire, un impegno: l'onestà di chi si offre nudo al mistero
del mondo, accettandone il peso, le sfide, lo spirito. E' l'anima
del cosmo, che filtra nella parola dell'artista, qualcosa che possiamo
avvertire e sentire, senza poterlo spiegare, perché le parole ci mancano,
perché il linguaggio non basta più, perché la forza straripante dell'Amore
e della Musica va oltre e rompendo gli argini e spezzando le catene
di ogni tempo, le catene della Storia. Una voce della
libertà, quella di Milva, la voce di un'artista che cerca di
capire il mondo e che vorrebbe cambiarlo, quando le ingiustizie oltrepassano
la nostra capacità di sopportazione e di tolleranza.
L'artista esibisce e mostra quello che non riusciamo ad argomentare
e a spiegare, quello che sfugge all'analisi. Maria
de Buenos Aires è
la metafora di questa ricerca, fatta di emarginazione e di solitudine,
la "luce oscura" che dischiude la Storia e che abbraccia
tutti noi, essendo la tramatura
latente della nostra vita, la fibra, la costellazione originaria del
Dire che è, sempre, lo sappiamo, un "ricordare", un riportare
alla memoria. La musica di Piazzolla, perfettamente armonizzata
con la capacità introspettiva e straniante di Horacio Ferrer,
delinea un quadro visionario e surreale, una raffigurazione carica
di atmosfere oniriche, intrisa di inquietudine e ricca di un pathos
"primordiale" che penetra la superficie delle cose per evidenziarne
i cromatismi, i contrasti ritmici, le dissonanze di un mondo "a-tonale",
privo, ormai di agganci metafisici e di certezze prestabilite, inamovibili.
In "Maria de Buenos Aires", così come
accade, del resto, nell'intera opera di Piazzolla, possiamo osservare
e gustare la sottolineatura imprevedibile dell'effetto timbrico, l'amplificazione
suggestiva e onirica dei passaggi armonici, la raffinatezza sperimentale
di un fraseggio che è consapevole del bagaglio accademico. L'opera
di Piazzolla manifesta, qui e altrove, un continuo interscambio culturale
che ritroviamo nella contaminazione audace di moduli diversi, nel
gusto personalissimo dell'irregolarità ritmica e dell'accentuazione
inattesa, ma, soprattutto, nell'inconfondibile impasto timbrico che
trasforma il tango in una forma classica, nobile, colta, "da
ascoltare", innanzitutto. Piazzolla crea, in questo
modo, una nuova estetica del tango, una forma eclettica e metaforizzante,
permeata di sottili allegorismi, a volte sottaciuti e a volte fulminanti,
paradossalmente sospesa tra l'improvvisazione di sapore jazzistico
e il neo-classicismo "oggettivo", mutuato da Stravinskij.
Costante, in Piazzolla, rimane la volontà di costruire
un discorso musicale nuovo e complesso, capace di aderire al vortice
della finitudine, ai suoi interrogativi e allo stupore di chi, galleggiando
nella superficie increspata della vita, cerca di sondarne lo spessore,
perforando, ad un tratto, quella compattezza assurda, che produce
"spaesamento" e angoscia, come Heidegger e Camus, su posizioni
teoriche molto diverse tra loro, ci hanno insegnato. Milva, quando
interpreta l'arte espressionista di Piazzolla, si pone "nell'occhio
del ciclone", al centro della Storia, nella conflagrazione emotiva
del ricordo. Milva getta uno sguardo sulla condizione
dell'artista, come per ripetere al suo pubblico la dichiarazione d'amore
che l'arte neorealista di Edith Piaf e Juliette Gréco, negli anni
Quaranta e Cinquanta, ha tradotto in musica. L'album "Artisti",
così come il disco dedicato alla "chanson française",
ha un'intonazione uniforme: è, a mio avviso, una catarsi del quotidiano
e una meditazione intimista, in cui la preghiera assume un ruolo centrale.
Nelle parole di Renato Dibì musicate da Sergio Rendine, ad
esempio, l'invocazione prende la forma magniloquente dell'Aria,
il profilo evanescente di una freschezza spirituale, che pervade
il cosmo e che riassorbe le ansie individuali, in una serenità
appagante che riscopre, su uno sfondo orchestrale dilatato, una sintonia
profonda e "sin-fonica" con il grembo materno di quella
Natura che, secondo Eraclito, "ama nascondersi". All'armonia
che troviamo in Aria, risponde l'Ave Maria di Piazzolla,
un momento irripetibile di proiezione "verticale" verso
l'Assoluto, un atto di fede nell'Eterno che ci costituisce e ci alimenta.
Ma la conclusione dell'album non smentisce questa "curvatura"
quasi "sacrale" che Milva ha voluto imprimere all'opera.
Yo soy Maria, infatti, è l'espressione di una immanenza "opaca",
la voce dell'altra Maria, la figlia di Buenos Aires, nata dal
genio a suo modo "metafisico" di Astor Piazzolla, che ha
prodotto, nella sua opera, un affresco unitario, fatto di blocchi
sonori e di mescolanze evocative.
La "Maria" che rivendica la sua identità e
che ripete ossessivamente il suo nome, è il riflesso stravolto di
una metropoli decadente e lacerata, di una città crepuscolare
che sembra nata dall'invenzione di Borges, da uno dei suoi "labirinti"
infiniti. Un luogo indefinibile, quello descritto
da Astor Piazzolla e da Horacio Ferrer, dove l'uomo, condannato
ad un esilio interminabile, può soltanto vagare, nella speranza
di ritrovare se stesso e gli altri, in uno sguardo improvviso, che
ci risvegli alla comprensione e all'incontro.
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